Stazione





Allontanarsi
dalla linea gialla.


Avvolgersi
perdersi nel fumo denso.
Luce verde e nera,
artificiale tempesta
di aghi di bianco vuoto
infiamma purpurea gli occhi.


Risuonarsi
nei pensieri che rimbombano, 
forse diversi da quella
pallida luce sintetica?


Un comando, dal nero nulla,
muove
affaristi in soprabito, casalinghe infelici
voci d'un misero morente.


Sentirsi
e sentire che non c'è più niente,
fuori da quel triste ed immotivato comando.
Fuori non c'è il tempo,
né più lo spazio,
ma solo caldo umido e straniante:
s'attacca ai vestiti,
aderisce al terribile vuoto
d'una voce che, dal niente,
ti chiede gentilmente di non morire.






Il filosofo e l'ingegnere

Mattina. Un filosofo e un ingegnere camminano lungo un viale, discutendo animatamente.

Filosofo: "Tu vorresti mettere sullo stesso piano un tunnel nel Gran Sasso e lo Zarathustra di Nietzsche? Un palazzo qualunque e la Critica della Ragion Pura di Kant? C'è molta più bellezza in quest'ultima, direi."
Ingegnere: "Certo, sullo stesso piano! Anzi, ti dirò che dal mio punto di vista, una diga qualsiasi è molto più bella di un libro di Kant. Tra l'altro, al liceo non lo sopportavo, manco per niente..." *


Se cento persone leggessero questo dialogo, probabilmente avremmo cinquanta dalla parte dell'ingegnere e cinquanta dalla parte del filosofo. Forse, ottanta con il fan delle dighe e venti con l'amico di Kant. O viceversa. In ogni caso, su un campione indefinitamente ampio di persone, vi sarebbe sempre almeno un'opinione opposta. Questo assunto possiamo ragionevolmente supporlo come ovvio. Un postulato, diciamo.
Detto questo, cosa potremmo dedurne? Senza pensarci più di tanto, qual'è l'affermazione che, secondo logica, viene dopo questo postulato? 

"Il significato associato alla parola "bellezza" non è uguale per tutti."

Che possiamo tradurre come:

"Il concetto di "Bello" non è uguale per tutti."

Per voler cavare una qualche utilità dalle opinioni dei due studiosi, è necessario continuare a ragionare. Quantomeno, possiamo pensare di avere voglia di scoprire chi dei due ha ragione. Di capire quale percentuale di quei cento stia nel giusto. Per farlo, è necessario arrivare ad un accordo sulla natura del concetto di "Bello".
Ma cercare di arrivare a questo accordo non è proprio fare della Filosofia? Un'intera branca della materia si occupa della questione del Bello: l'Estetica. Non è ovviamente mia intenzione giungere ad una soluzione di questo problema qui, in questo momento. Però voglio trarre un'altra conclusione dalla faccenda.
Il punto è che per risolvere la controversia dobbiamo necessariamente fare ricorso all'approccio filosofico. L'unico modo di trovare un accordo è di giungere ad affermazioni condivise, argomentate razionalmente (perchè la facoltà razionale ce l'abbiamo più o meno tutti). 
Questa particolare contesa non è solo sul "Bello": è in questione il valore della Filosofia rispetto alla Tecnica. Si tratta di un conflitto. Le due dottrine sono contendenti. Ma mentre la Tecnica affronta la sfida presentandosi "nuda", come oggetto, senza proferire parola, la Filosofia trascende la sfida stessa, obbligata a decidere poi il vincitore in maniera imparziale, difendendosi dal canto suo parlando, discorrendo, attraverso il linguaggio. Essa deve difendere se stessa, ma parlare anche per la Tecnica, cercando di difenderla meglio che può: tocca alla Filosofia valutare il Bello nella Tecnica. 
Immaginiamo dunque questa assurda situazione: due gladiatori sono nell'arena. Uno grosso, grigio e immobile, muto ed imponente. L'altro piccolo, veloce, irrequieto, che invece di approfittare dell'immobilità dell'altro per pugnalarlo, si arrampica, sale in tribuna, e diventa arbitro e giudice della sfida. Dovendo decidere il vincitore, inizia a parlare a favore di sè stesso, poi a favore dell'altro, e non riesce a decidersi, salendo e scendendo dalla tribuna, diventando a tratti oggetto dell' analisi dell'arbitro, a tratti l'arbitro stesso. E l'altro, immobile.
E' questa la pazza situazione della Filosofia, che è "trascendente" (rispetto a questa contesa) proprio perchè conseguenza immediata del linguaggio. La Filosofia ci parla, ha la parola: è per questo che è la cosa più vicina a noi, esseri razionali che dispieghiamo continuamente la nostra ragione nel linguaggio. La Tecnica è muta: sta lì, fatta com'è fatta, inerte: sta al filosofo attribuirle delle qualifiche, glorificarla o degradarla. 
La Filosofia più che una dottrina è un personaggio buffo, pittoresco, ma al contempo pieno di tragicità: come quell'affannato gladiatore-arbitro condannato da una perfetta e commovente imparzialità a salire e scendere dalla tribuna all'infinito, per tutta l'eternità.
A questo punto, possiamo interpretare sostanzialmente il rapporto Filosofia-Linguaggio in due sensi. La Filosofia è dunque "Filosofia del Linguaggio",  appartiene al Linguaggio, che in qualche modo l'abbraccia, la contiene, la possiede. La Filosofia è la conseguenza più diretta del mondo umano razionale, ovvero del Linguaggio. Così come non si può analizzare il Linguaggio senza fare ricorso al Linguaggio, non si può dire nulla di concreto sulla Filosofia senza esercitare un approccio filosofico (cioè senza fare della Filosofia). Ma essa è anche "filosofia del linguaggio", ovvero ha come suo oggetto privilegiato il linguaggio (con la minuscola) e le sue mancanze: si sforza infine di definire il significato comune di parole quali "Dio", "Verità", "Virtù", "Felicità", "Arte", "Bello". Ma anche, senza dubbio, di parole come "Filosofia" e "Tecnica".





"Beauty is no quality in things themselves: It exists merely in the mind which contemplates them; and each mind perceives a different beauty."


"La bellezza delle cose esiste nella mente di chi le osserva. Ogni mente percepisce una bellezza diversa." 


(Hume)





* da un dialogo realmente avvenuto.


Le banche e la crisi

Atene è in fiamme. La drammatica rivolta greca, ormai giunta al culmine, diventa il simbolo di un crollo: con questa violenza muore l’illusione di pace e stabilità che ha accompagnato l’Europa degli ultimi due decenni. E mentre sentivamo la guerra come una cosa a noi estranea, confinata in un deserto del Medio Oriente, non ci siamo accorti della sua presenza costante nel nostro mondo, il mondo dell’Occidente “civilizzato” e ultracapitalista.
All’inizio del 2010, subito dopo le elezioni, la Grecia dichiara ufficialmente bancarotta. La crisi della finanza mondiale, la costante pressione delle agenzie internazionali di rating e la speculazione dei borsisti hanno messo un paese in ginocchio. In due anni, la spietata politica di tagli messa in atto dal presidente Papandreou ha aperto una breccia nel mondo europeo post-bellico, riportando alla luce la miseria e la fragilità su cui si regge il nostro sistema economico. Ma come funziona questo sistema? Cosa dà a certe istituzioni il potere di sovvertire i governi?
Le grandi masse, produttrici e consumatrici della maggioranza delle risorse, spesso non hanno idea dell’enorme ruolo che le banche, statali e private, hanno in questa grande macchina. Nate come depositi di moneta, è da tempo ormai che queste istituzioni sono diventate principalmente istituti di credito, alla base di Stati ed imprese. In un sistema in cui solo il 3% della ricchezza ha la forma concreta del denaro, si comprende con facilità quanta importanza acquistino la grandi banche, unici intermediari tra i consumatori e la ricchezza finanziaria, completamente virtuale. Azioni, compravendite, scommesse, speculazioni, ritocchi: tutto quello che avviene nella gestione della Borsa influenza enormemente il destino di singoli e collettività.
Paradossalmente, l’uomo ha smesso da tempo di controllare il suo strumento di controllo della ricchezza: la moneta, immessa nel mercato, si “muove” seguendo schemi complessi, algoritmi indecifrabili, statistiche imprevedibili, arrivando infine ad un impoverimento globale. Questa condizione alienante e autodistruttiva nasce dalla banca moderna, che ha il potere di creare infinita ricchezza virtuale, “creando” moneta (il cosiddetto denaro scritturale) al momento di cedere prestiti,
vendendo e comprando debiti e crediti, speculando in borsa sull’andamento dei titoli.
Come in un romanzo di Kafka, oggi la banca è un’istituzione incomprensibile per l’uomo comune, un oscuro sistema burocratico a cui si è obbligati ad affidare i frutti del proprio lavoro, senza “se” e senza “ma”, pur di sperare in un futuro più sicuro. Da quel momento, il denaro contante diventa un dato elettronico da utilizzare a piacimento, senza che dietro ci sia un lavoro, un valore reale. E mentre la banca concede più crediti di quelli che ha a disposizione, si crea a poco a poco una fragilità radicale, insita nell’intero sistema. La crisi del 2007, oggi ancora molto forte, è stata il risultato di questo processo.
L’unica soluzione davvero efficace, al di là dei crediti “fiduciari” di istituzioni ambigue come la Banca Centrale Europea (principale causa dell’austerity greca), è una radicale riforma del sistema economico, nel segno di un’attenuazione di questo rovinoso capitalismo finanziario. Allo stato attuale, il potere politico non può o non vuole riconoscere l’enormità del problema, riuscendo a pianificare soltanto “manovre” del tutto inadeguate ad impedire la degenerazione definitiva del sistema.
Tocca al cittadino intervenire, prendendo coscienza della crisi. Presupposto fondamentale al cambiamento è che l’uomo comune capisca che il proprio interesse coincide con l’interesse di tutti.

L'essere nel linguaggio: essere come "stare"

Comincio qui una serie di riflessioni completamente slegate dall'ontologia, che è scienza dell'essere in quanto essere. Queste parole non hanno alcuna pretesa di addentrarsi in questa affascinante quanto complessa branca della filosofia. Si tratta piuttosto di alcune considerazioni sui modi degli uomini di "dire" l'essere. In altre parole, quali sono gli usi e i significati della parola "essere"? Quali sono le concezioni che stanno alla base di questi usi? Questi usi sono sbagliati, mancanti in qualcosa, equivoci? Ovviamente, non si ha alcuna pretesa di completezza: diciamo che sono spunti di discussione.


Consideriamo innanzitutto l'uso più comune della parola "essere". Nella stragrande maggioranza dei casi, usiamo questa parola come verbo. Io sono, tu sei, egli è, e così via. Siamo soliti inoltre accompagnare il verbo con una determinazione: può trattarsi di un aggettivo ("Michele è simpatico"), di un complemento di specificazione ("La penna è di mia sorella"), di un complemento di compagnia, di un complemento di luogo, e così via. In questo uso, "essere" è da considerarsi un equivalente di "stare, permanere in uno stato". Ad esempio, Michele permane nella qualità di essere simpatico: è simpatico non in un istante, ma in un certo lasso di tempo. Allo stesso modo, la penna continua ad essere di mia sorella, prima, mentre e dopo che io pronuncio la frase.
Wittgenstein definisce un "fatto" come il sussistere di uno "stato di cose" (Sachverhalte), ovvero di un determinato modo in cui "stanno le cose". Dire che esiste uno "stato di cose" significa dire che le cose si trovano in determinate relazioni tra loro in un punto del tempo (il momento, l'istante). Quando usiamo, nel discorso, "essere" come "stare", non facciamo altro che descrivere con la parola un certo stato di cose, un certo insieme di relazioni fra oggetti, come se esso avesse un suo ben determinato posto nel tempo e nella realtà. Ma è così? Possiamo dire che gli "stati di cose" esistono, e non sono mere astrazioni logiche? Possiamo dire che parlando attraverso la descrizione di stati di cose descriviamo effettivamente la realtà come ci appare, senza applicare semplificazioni? Credo di no.
Osserviamo il mondo attorno a noi: dove sono gli "stati"? dove sono gli "istanti"? Proprio la parola "istante" è fonte dell'inganno, perchè pretende di rappresentare nel tempo (principale costituente della realtà come ci appare) un concetto astratto, geometrico: quello del punto adimensionale. Zenone ci insegna che i "punti" non hanno posto nella nostra realtà, ma sono solo costruzioni mentali, legittime solo nell'astrazione geometrica. Tutte le determinazioni del tempo (l'ora, il minuto, il secondo, il millesimo di secondo) rappresentano degli intervalli, ed è necessario che sia così: non si può misurare il tempo con gli istanti. Anche considerando la milionesima frazione del milionesimo di secondo, si tratterà sempre di un "intervallo" di tempo. Gli istanti sono inganni. Anche la stessa fotografia, che sembra possa catturare l'inafferrabile istante, è in realtà il risultato di una cattura della luce che avviene in un intervallo di tempo. Ristrettissimo, ma pur sempre un intervallo. Gli apparenti stati di cose rappresentati in una foto non sono tali: dall'inizio della cattura della luce fino alla fine, impercettibili cambiamenti avvengono, e gli oggetti non sussistono più in un determinato stato. Seguendo il processo opposto, i video imitano il flusso temporale attraverso una fittissima serie di foto sovrapposte: i fotogrammi, o, su un computer, le posizioni dei pixel, riportanti immagini "ferme" ma che a loro volta, per quanto detto, non rappresentano stati di cose.
A ben guardare, l'etimologia della parole "istante" è rivelatrice: il termine viene dal participio presente del verbo "Instare", che significa sovrastare, incalzare. L'istante nemmeno inizia, che già è finito. Non ha durata temporale, non ha esistenza, non è (secondo un uso del verbo essere che esaminerò in un secondo momento, l'essere come "esistere"). In-stare: dentro l'istante di trovano le cose, nelle relazioni che le legano. Ma come gli istanti, queste relazioni subiscono una continua e fluente modificazione: esse non sussistono, non permangono. Gli "stati di cose" sono dunque un inganno: non vale interpretare la realtà come un video, come una successione di fotogrammi, inframezzata da momenti di buio. Le relazioni fra cose non si accendono e si spengono d'un tratto: esse sono come una pasta, una forma fluida in continuo ed incessante movimento.
Così, se dal punto di vista pratico dire che "Michele è simpatico" può forse costituire un'approssimazione, una semplificazione accettabile, tutt'altra cosa è parlare, almeno con i dati che abbiamo a disposizione, di "momenti eterni", di "stati di cose", di predestinazione, di un universo cosmologicamente "immobile", di sostanza nel senso classico del termine, di etiche deontologiche valide sempre e comunque. Il mondo, almeno per come lo vediamo, è in continuo cambiamento. Tocca all'ontologia stabilire il senso e la verità di questo cambiamento, per quanto sia possibile alle facoltà umane.


"πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός"
"Tutto scorre, come un fiume"


(Eraclito)





Il vero valore della storia

Poche cose rendono la vera essenza della Storia. Poche cose la trasformano da un ammasso di date a Storia dell’esperienza umana, vero racconto dei fatti degli uomini, dei loro modi di affrontare la vita, dei loro grandi errori. Sentir parlare donne come Liliana Segre o Goti Bauer è una di queste.
Il 2012 è il terzo anno consecutivo dell’iniziativa dedicata al Giorno della Memoria, organizzata dal Conservatorio di Milano “G. Verdi” tra 26 e 31 Gennaio. Intervenuti, oltre alle due sopravvissute al lager, lo scrittore Nedo Fiano, anch’egli reduce da Auschwitz, e Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera. Il colloquio con i testimoni dello sterminio nazista, rivolto soprattutto alle scuole, diventa doppia testimonianza: il ricordo del genocidio nazista ravviva non solo il dolore, ma anche la coscienza che quegli eventi sono davvero avvenuti, vicino a noi, nel nostro mondo. Quei fatti non sono più parole su un libro, tutto sommato marginali, relegate al passato: le parole di Liliana Segre ci fanno capire che la strada per la follia di massa è sempre aperta, anche e soprattutto quando nessuno lo sospetta.
Nell’Italia del 1938, nella Milano di Liliana, sembrava impossibile che “una famiglia ebraica laica, italiana da sempre” potesse essere deportata, condannata a lavorare e a morire in qualche anfratto dell’Europa dell’Est. Il tragico sviluppo dei fatti ha però smentito l’apparenza. E ora, dopo più di settant’anni, la stessa domanda continua ad echeggiare nel tono, nei modi, nell’espressione dei sopravvissuti: “Perchè?” Perchè è successo questo? Una volta che si sono vissute queste cose, chiederselo è inevitabile. Quando l’assurdo entra nella vita, quando si rimane nudi, al freddo di una stanza, le scarpe in un angolo, uomini che agiscono, danno ordini, percuotono, senza un senso: è questa l’essenza dello “stupore” tante volte nominato, da Primo Levi come dalla stessa Segre.
Solo dopo aver capito l’essenza di questo stupore si può comprendere la forza e l’importanza di queste testimonianze, testimonianze di persone che cercano di comunicare, di rendere altr individui partecipi del paradosso della vita.
Il genocidio ebraico non è certo stato l’unico genocidio della Storia, né l’unico meritevole di essere ricordato. Per noi, però, è uno dei pochi che è ancora fuori dai libri, uno dei pochi che può essere “toccato con mano”, preso come fatto. Ed è per questo che esso ha un’importanza enorme: questa tragedia ci ricorda tutte le tragedie, ci ricorda che “questo è stato” non una volta, ma moltissime. E che potrebbe tornare ad essere in ogni momento.
Il male è banale, come ci insegna Hannah Arendt: esso non si presenta con grandi turbini, ma in maniera sottile, sfruttando le debolezze comuni a tutti gli uomini e a tutte le epoche. Forse, è questo il vero valore della Storia, che non è un elenco passivo di fatti, ma analisi della natura umana.
Citando Primo Levi, “ricordate che questo è stato”. Per ricordare che può tornare ad essere in qualsiasi momento, perchè è soprattutto dentro di noi.




Il filo


L'astronauta J guardava stupito davanti a sé. Un lungo filo metallico si stendeva dritto davanti a lui, verticale, sottile e grigio come un graffio nel cielo nero. Avrebbe dovuto chiamare la base, ma si stava attardando a cercare di grattarsi il naso. Maledetta tuta spaziale, maledetto prurito e maledetto filo del cazzo. Ora era lì, a muovere meccanicamente la mano sul vetro del casco, senza sapere che fare.
Il filo veniva dal nulla, e cadeva a precipizio verso la Terra. Ad occhio e croce, si disse J, doveva essere attaccato all'Antartide. Che cosa buffa, pensò. Da vicino sembrava proprio un filo di metallo, di quelli che stanno su qualsiasi cancello di periferia. J agitò il braccio, salutò, girò attorno al filo e gli fece persino delle boccacce. Il filo, però, rimaneva impassibile. J si disse che mai e poi mai l'avrebbe toccato, che diamine. In quella zona del cosmo non c'erano mai stati, ma chissà quale diavolo di scienziato doveva aver progettato quello scherzo.
Mosse la mano verso la tasca e ne estrasse un mattoncino bianco senza peso. Alzò il braccio, regolò l'aggeggio e attese un paio di secondi. Bip, Bip. Bip, Bip. Bip. Nessuna risposta. Doveva essersi allontanato troppo dalla base. Una goccia di sudore gli calò dalla fronte,  per poi scendere lungo il naso che ancora prudeva. Presto avrebbe finito le scorte d'ossigeno, e in quella nebbia scura non aveva niente per orientarsi.
Quel filo, quel maledetto filo. Era lì, da un secondo o da sempre, senza aver bisogno di nulla. Ignorava, o si disinteressava, al fatto che presto J sarebbe morto. La grigia superficie del metallo sembrava guardarlo con un lieve sorriso furbo, un po' pietoso e un po' sornione. La roccia del Purgatorio doveva aver guardato allo stesso modo Ulisse, prima di vederlo affogare con tutta la banda che si era portato appresso, a morire. Ci sono posti in cui gli uomini non dovrebbero arrivare, si disse J. Posti che vuoi raggiungere finchè non ci sei arrivato, finchè non ti accorgi che dietro di te hai bruciato tutti i ponti e davanti ci sono solo solitudine e morte.
A questo punto tanto vale fare qualcosa, si disse J, che ora temeva seriamente di morire affogato nel suo stesso sudore freddo. Tornò a concentrarsi sul filo. Si sgranchì i muscoli, prese un bel respiro. Pensò alla moglie, a sua figlia appena nata. E lo toccò.
Nulla. Proprio un bel nulla. La mano di J strinse un sottile pezzo di metallo, come faceva cento volte al giorno sulla Terra. L'astronauta sudaticcio poteva persino immaginarsi la leggera freschezza che quel ferro doveva dare al tatto, la bellezza della superficie liscia, il riflesso di una luce che non c'era su quel filo così stabile, così concreto.
J ne fu deluso. Si aspettava qualche evento, qualcosa che potesse salvarlo, o almeno rendere la sua morte più interessante. Fece una strana risata tremula, e diede al filo uno strattone, forse sperando di far calare un sipario e svegliarsi nel suo letto. Uno strattone, due strattoni. Tre, quattro. Su, giù. Giù, su. Clac. Lo scatto lo fece sobbalzare. Sentì il filo perdere tensione, sempre appeso a quel cielo scuro, ma staccato dalla Terra. Aveva strappato il filo dall'Antartide.
Lasciò che nelle sue vene si dilatasse la vaga sensazione di aver commesso un qualche danno, a cui sarebbe seguita un'ignota punizione. Un po' come quando aveva rotto il vaso della nonna, trent'anni prima. Un rumore di proiettile squarciò quel vuoto buio. Con lentezza, J abbassò la testa. L'Antartide era spezzata in due. Una lunga linea obliqua tagliava il ghiaccio, per migliaia e migliaia di chilometri. Crac! Crac! Lunghe spaccature si diffondevano dal centro del continente, spargendosi come vene sottili nel mare. Un cratere nero cresceva a vista d'occhio, e gli oceani della Terra non potevano far altro che crollare in questa depressione.  Le nuvole del cielo correvano insieme all'acqua, accompagnando con enormi tempeste i terremoti e i maremoti ormai diffusi su tutto il pianeta. Le spaccature, come un gelido cancro, erano ormai arrivate all'emisfero australe. Le terre emerse, sconquassate da eruzioni ed inondazioni, erano quasi scomparse sotto la forza del mare.
Mentre il pianeta, non più attaccato al cielo, si preparava a collassare su se stesso, J si ricordò, ancora una volta, della sua famiglia. Di sua moglie, di sua figlia appena nata e del figlio che non avrebbe mai avuto. Poi si ricordò del suo naso, che ancora gli dava prurito. Si tolse il casco e se lo grattò.
Ah, che liberazione!


Un buon caffè


“Un caffè ristretto. Poco zucchero.” Il ragazzo annuì, un po’ intimorito dai suoi modi sbrigativi. 
Doveva apparire così stonato, pensò, in quella mattina luminosa di inizio estate, una di quelle mattine in cui ti aspetti solo che il mondo sorrida e gli uccelli cinguettino, e che insomma ti venga ridata un po’ di quella gioia di vivere che credevi di aver perso. 
Un vecchio solo, ecco cos’era. Un vecchio solo e terribilmente fuori posto, con la sua giacca marrone e le scarpe lucide, in volto l’aria di chi fugge e nel corpo i brividi della paura. Nell’aria odore di fiori, chiacchiere, una risata. E il ticchettio delle sue dita su quel tavolino bianco, che non accennava a smettere. Con lo sguardo, cercò una distrazione nella piazza soleggiata. 
Bambini che giocavano con un pallone, adolescenti che amoreggiavano sulle panchine, donne che portavano buste della spesa. Tutto gli diceva che ormai era al sicuro. Ce l’aveva fatta, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la paura. Ansimava, e per peggiorare le cose decise di accendersi una sigaretta. Con la mano tremante tirò fuori uno di quegli accendini vecchio stile, quadrato, in argento. Un rapido movimento e nacque una fiammella. Nel caldo di giugno, quella luce arancione e sinuosa gli ricordò quel villaggio in Africa. Capanne distrutte, bambini piangenti sui cadaveri delle madri, tanto fumo. L’incendio era divampato, presto il villaggio sarebbe stato libero e i diamanti sarebbero stati nelle loro mani. Ricordò i commenti soddisfatti dei suoi uomini, e il suo stesso sorriso: un’altra missione compiuta.
Sbuffò, e una grossa nuvola di fumo uscì dalle sue labbra. Non aveva mai voluto smettere: un uomo nella sua posizione poteva permettersi qualche boccata di tabacco, per mantenere la giusta lucidità. Aveva dovuto compiere scelte difficili. Metà della sua vita l’aveva passata con un fucile in mano, l’altra metà a spostare bandierine su una cartina. In entrambi i casi, stava uccidendo. Dicevano che era per il paese, per la pace, o per qualche altro nome senza senso. Ma ora, seduto a quel bar, l’aveva capito: si trattava solo di soldi. Nemmeno potere, solo soldi. Per i soldi c’era stata la guerra, per i soldi  aveva scelto di partecipare a questa guerra, e per i soldi ora la guerra la facevano a lui. Ma non l’avrebbero preso, no. Poteva nascondersi, poteva continuare a fuggire per il resto dei suoi giorni, ma non avrebbe dato loro questa soddisfazione.
I passi affrettati del cameriere lo riportarono alla realtà. “Ecco a lei. Gradisce altro?” Con un cenno mandò via quel tipo, una faccia pulita e onesta che non poteva sopportare. Amava l’odore forte del caffè. Il giorno prima, ricordò divertito, ne aveva bevuto a litri. Uno stupido espediente per farsi coraggio, per tenersi in piedi, per seguire un qualche rito che desse normalità a quella giornata.
Istintivamente, passò una mano sulla valigetta di pelle posata sulle sue ginocchia. Morbida pelle scura, bottoni dorati, pregevole fattura. E a saperne il contenuto, poi! Qualsiasi giornalista avrebbe venduto sua madre per mettere le mani su quelle carte, che ora erano lì, con lui, fuori dal caveau, nell’aria profumata di quella mattina di giugno, in quel bar a più di duemila chilometri dal posto che spettava loro. Verbali di conversazioni segrete, coordinate di nuovi giacimenti di petrolio, liste e liste di nomi, tutti possibili bersagli. Un furto perfetto, curato in tutti i dettagli. Un furto che gli avrebbe permesso, finalmente, di cambiare vita. Un aereo preso al volo, documenti falsi, un po’ di contanti, e ora era lì, con la coscienza che aspettava di sentirsi finalmente pulita.
Una casa in collina, un orticello da coltivare, un posto tranquillo dove morire. Vendere un po’ di quelle carte, bruciare le più pericolose, dimenticare il suo passato.
La redenzione era lì, a pochi passi, ma dentro di sé non sentiva altro che paura. La stessa paura che lo accompagnava sui campi di battaglia da tutta una vita, e che di recente aveva cominciato a contaminare anche i suoi incubi.
Era un vecchio, nell’aria immobile di giugno. Nulla era più chiaro di questo. Era un vecchio codardo, in fuga da sé stesso, seduto ad un bar, nel sole di giugno. Dio, quanto era stonato. Quanto pesava sul mondo il suo corpo, quanto erano fuori luogo quei ricordi! Quante grida nelle sue orecchie, quanti volti disperati nei suoi occhi, quanta morte nelle sue mani!
Un uccello passò lì vicino, con un rapido frullo d’ali. Si sentì il viso appiccicaticcio, forse per il sudore. Pensò di cavare il fazzoletto dal taschino per darsi una sistemata, ma inspiegabilmente si accorse di non poter alzare il braccio. Guardò in basso, e vide un lungo e denso fiotto rosso scuro colare sulla sua giacca, sulla valigetta e persino sul tavolino. Dal buco che aveva sulla fronte, una goccia di sangue cadde persino nella tazzina.
Che peccato, pensò, doveva essere davvero un buon caffè.





Il viale di fronte all'universo

Con la coda dell’occhio intravide appena il suo corpo addormentato, le lenzuola chiare nella stanza illuminata, il vaso di fiori che qualcuno aveva sistemato sul comodino.
Stava già attraversando l’atmosfera. Il suono del mondo era ridotto ad un ottuso ronzio. Una strana morbidezza lo circondava, come se non si fosse mai allontanato dal suo letto. Gran bel sogno, pensò emozionato. Gran bel sogno davvero. La malattia può fare strani scherzi, ma questa volta aveva fatto le cose per bene. Un dettagliatissimo tour del sistema solare, tutto nella sua testa.
A che velocità stava viaggiando? 
Di sicuro aveva abbattuto il muro del suono, si disse passando accanto a Giove. 
I maestosi anelli di Saturno erano diventati poco più di un’ombra lontana quando capì che non poteva essere un sogno. Nonostante tutti quei documentari, nonostante qualche ricordo scolastico, dovette ammettere che la sua mente non era in grado di ricostruire una meraviglia simile.
Si voltò. Non distingueva più il Sistema solare nella massa indistinta e meravigliosa di luce che si stava rivelando attorno a lui. Stava accelerando, spinto da una forza irresistibile e sconosciuta. Lontano dalla sofferenza, lontano dai problemi, ma anche dall’affetto di quelle poche persone che gli erano rimaste amiche. Lontano, insomma, dalla vita.
Non aveva paura. Non capiva, ma sapeva che doveva andare così. Si sentiva come un piccolo ingranaggio, manovrato da un abile artigiano. Stava andando al suo posto, al luogo che gli apparteneva, e vi era attratto come da una specie di magnetismo. 
Una nuova gravità, a cui non voleva resistere. Si sgranchì il collo, si distese, e scelse di godersi il giretto.
Fluttuava su un ampio disco bianco. Provò invano ad afferrarlo per sentirne la consistenza, ma quello era già lontano, ridotto ad una macchia su sfondo nero. La Via Lattea spariva, così come il gruppo di galassie attorno ad essa. 
L’universo era una tavola nera su cui un pittore distratto aveva sparso della vernice luminosa. 
Forme bianche e forme nere si alternavano, lasciando sempre più spazio all’oscurità.
Da qualche milione di megaparsec di distanza, tutto questo era ridotto ad un puntino luminoso all’orizzonte. Una velocità inconcepibile, lontanissima dai limiti umani. Una forza irresistibile, senza alcun motivo definito. Una sicurezza e una felicità che esistevano di per sé, senza cause e senza un senso.
Viaggiava ormai da qualche minuto nell’oscurità più completa, quando un nuovo tipo di luce, indescrivibile nell’intensità e nel colore, attrasse la sua attenzione. Una lunga linea verticale tagliava in due l’assoluto nero del cosmo, come una ferita lucente, come una porta su nuovi spazi.
Un lungo corridoio che correva verso l’infinito. Un viale di fronte all’universo.
Un suono acuto, come una voce bianca, e la consapevolezza della fine di sé stesso. Questo sentì in quella che doveva essere la fine del viale.
Capì con sorpresa che quel grande e maestoso percorso non era altro che una via secondaria in una struttura infinitamente più grande. Si trovava in un ambiente a metà tra un aeroporto e un incrocio nel centro cittadino di lunedì mattina. Miliardi di miliardi di anime lucenti si muovevano in quel luogo, ora in flussi, come un unico essere, ora sfrecciando da sole a velocità praticamente infinite.
Dentro di sé, sentiva un cambiamento improvviso e tuttavia graduale: i suoi modi di pensiero erano cambiati, lontani ormai dai canoni della sua specie, ma i suoi ricordi ancora resistevano in qualche modo, pur sfuggendogli costantemente dalle mani, come sabbia.
Attorno a lui, migliaia di puntini luminosi, tanti e tanti universi. 
Cosa sapeva di sé, ormai? Sentiva soltanto che quel luogo non era il suo: si trattava di un transito, di un mezzo per arrivare a destinazione. 
Non aveva uno sguardo da orientare, un udito da tendere o un tatto da usare. E tuttavia conosceva queste cose, percepiva l’avvicinarsi di uno di quei punti, intuiva che un nuovo cambiamento era in arrivo.
Come un tuffatore nell’acqua, entrò nel suo nuovo universo. 
Questo secondo viaggio gli parve molto più rapido del primo, probabilmente per una questione di entusiasmo. Nuovi colori, nuove forme, nuove leggi. Non ricordava nulla, non mirava a nulla. 
Era semplicemente felice.
Decelerava, la meta era vicina. Vide qualcosa di simile ad un pianeta ingrandirsi, accogliendolo infine nelle sue viscere. 
Precipitò nella terra, in qualche modo consapevole di un nuovo, promettente inizio.
In quel punto, immediatamente, nacque un fiore, di un tipo mai esistito nel nostro universo.

La fustigazione di Wagner


Quest'anno l'inverno se la sta prendendo comoda. Meglio così. 
Torino è una donna austera, elegante. E' una donna bella di una bellezza segreta, che pochi possono capire.
Su di lei, il vestito più bello è quello dell'autunno.
Riesco a passeggiare con disinvoltura. E' una questione di mimesi: come un attore sul paloscenico, recito per nascondere il terribile segreto che porto in me. Non c'è peso più duro della conoscenza.


Il giornale porta la data del 3 gennaio. Una brezza fresca avvolge i passanti. Le ultime foglie cessano la loro ostinata resistenza e si abbandonano al caso. Forse lo sanno. Forse sanno che nulla ha più senso.
E una volta che si sa questo, che senso ha rimanere attaccati al proprio albero? Una volta che si ha la piena comprensione del concetto, una volta che tutte le parti del proprio corpo e della propria anima hanno pieno e profondo possesso di questa verità, il movimento e la stasi diventano indifferenti. Tutto diventa indifferente.
Non ho avuto bisogno dei miei studi per capirlo. Fin da bambino (ha senso ora parlare di età?) mi è sembrato di precipitare costantemente verso questo momento. Ora ho piena coscienza dei miei poteri e delle mie responsabilità, nonstante continui a parlare usando vecchi luoghi comuni.
Per esempio, la parola "ora" non ha alcun significato. Spazio e tempo si comprimono in un unico grande attimo, in cui tutto è, e tutto ritorna nell'infinito miscuglio dei frammenti del nostro universo. L'ho capito. Ma questo vecchio linguaggio, indegno dell'Uomo, non mi permette di esprimermi come vorrei. E' una tortura, aver carpito il segreto della vita e non poterlo nemmeno definire con chiarezza nella propria testa. Troppi limiti imposti.
Ma è qui che deve venir fuori la mia abilità. Devo far finta di nulla, altrimenti torneranno a prendermi. Mi hanno chiamato pazzo, mi hanno fatto assumere medicinali di ogni genere. Eppure è mio compito salvare questi ingrati.
Io sono Dio, io sono Dioniso, io sono il Buddha che in tutte le età è stato venerato sotto i nomi più svariati. Ma io sono anche questa mosca, questo bambino piangente, questa vecchia che chiede l'elemosina, e loro sono me.
L'identità è un'invenzione. L'individuo è un subdolo trucco della Discordia per impedire all'uomo di evolversi.
Nel caos, siamo tanti e diversi. Nell'ordine, tutto è Uno.

Sono diversi giorni che non dormo. Come potrei, visto il segreto che porto nel cuore?
L'impotenza mi rende frenetico. La grandezza del mio compito non mi permette  di esprimermi con chiarezza. 
Di questo passo, mi chiuderanno in qualche manicomio, segnando così la loro rovina.
Certo, non sarei il primo messia incarcerato. Ma visto quello che è successo al mio collega, non posso che essere preoccupato. Non per la croce, no. Ho paura che fraintenderanno il mio messaggio, e lo torceranno al servizio delle loro brame di potere. L'ultima cosa che vorrei è un concilio in cui si decida quali delle mie opere siano politically correct, e quali vadano bruciate come apocrife. 

In questo finto inverno che prelude alla fine del mondo, la gente sembra indaffarata, ma felice. 
Fervono ancora i festeggiamenti per capodanno.
Un pezzo di Wagner di spande nell'aria. Le vibrazioni di quell'armonia sembrano ai miei occhi come una mano tesa al cielo, un tentativo disperato di dare un ordine alle cose, di rendere palese la loro armonia. Di dimostrare, in fin dei conti, che Dio è vivo, di ricolmare di cuscini la gabbia dove queste povere anime sono costrette a passare la vita.
Nonostante la mia bravura di attore, non riesco a trattenermi dal versare una lacrima. Provo per l'ennesima volta a buttare giù qualcosa, che sia uno scritto o una melodia. Provo a rendere finalmente tangibile, concreto, il fuoco che ho nel cuore. Invano, naturalmente.

Ho gettato all'aria quei fogli inutili, e ho preso a camminare ancora più in fretta. Non ho meta, eppure corro.
Quella musica stenta ad uscire dalla mia mente.
Sta accadendo di nuovo. 
Io sono Richard Wagner. Questo sasso è Richard Wagner. Ogni singola cosa, in questo momento, qui in via Po come in America, è Richard Wagner. Pensavo di riuscire a dominarmi, ormai. Eppure quella musica sublime ha penetrato le mie difese, stroncando la mia carriere d'attore. Sono riuscito a nascondere a me stesso la piena coscienza della mia scoperta, almeno per qualche ora. E tuttavia ora mi sento ricadere nell'abisso. Il cuore mi scoppia, mi sento mancare.

Questa volta, però, c'è qualcosa di nuovo. Un dolore acuto mi impedisce di svenire.
Ritto in piedi, immobile nel vento freddo, guardo verso un angolo del marciapiede.
Un cocchiere ubriaco sta frustando a sangue il suo cavallo. Richard Wagner sta frustando Richard Wagner.
Mi stanno frustando. Sento la rabbia, sento il disordine, l'avversione innaturale dell'individuo verso se stesso.
Sento la pulsione suicida di un mondo che si frusta da solo, e non fa niente per difendersi. 
Il Superuomo non esisterà mai. Tutto morirà prima, soffocato dall'indifferenza.
Corro disperatamente verso il musicista, verso me stesso e verso tutto. Sono piegato in due dal dolore fisico, e sento la testa che mi scoppia. Urlo, e inciampo davanti alla carrozza.
Mi rialzo e non non posso far altro che abbracciarmi, piangendo. Cingo la testa del cavallo con le mie braccia tremanti, scosso dai singhiozzi. Voglio confortare l'Uomo, e allo stesso tempo distoglierlo da questo assurdo proposito suicida. 
So già che è tutto inutile.

Ecco, giunge la rovina del genere umano. Due guardie mi prendono per le braccia e mi portano via, urlandomi di stare calmo. Prima di cadere nell'incoscienza, sopraffatto dalla pietà e dal dolore, sento due voci lontane.
"Hai visto quel matto? Certo che ne accadono di tutti i colori oggigiorno...abbracciare un cavallo, bah. E mi sa che è pure uno famoso..."
"Ma sì, è quel filosofo, quel gran dottore tedesco...mi pare si chiami Nische, o Nicce...qualcosa del genere, comunque."


Rielaborazione di un episodio realmente accaduto:
...è datata 3 gennaio 1889 la prima crisi di follia in pubblico: mentre si trovava in piazza Carignano, nei pressi della sua casa torinese, vedendo il cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, abbracciò l'animale e pianse; in seguito cadde a terra urlando in preda a spasmi. (Wikipedia)
Chiamò il cavallo "Maestro Wagner", riferendosi al compositore.



Un esperimento


Ho comprato una grande vasca trasparente e l'ho messa sullo scaffale centrale.
Ora è lì, pronta per accogliere bioliquido in abbondanza. Le scienze mi hanno sempre appassionato, e ora che ne ho la possibilità voglio assistere dal vivo allo sviluppo della vita, anche solo nel suo stadio più semplice.
Verso il liquido scuro nella vasca, e la riempio fino all'orlo. Le istruzioni della scatola dicono di stimolare elettricamente la poltiglia per dare il via al processo. Prendo il morsetto collegato alla presa e lo ficco nel contenitore.
La reazione è immediata. Una piccola esplosione, e il liquido inizia a dilatarsi, diventando leggero, liscio ed uniforme.
Qualcosa si forma al centro, una sfera bianca di materiale incandescente. Dal calore si origina la vita, come sa ogni biologo dilettante. 
Il materiale chiaro, raffreddandosi rapidamente, si sfilaccia e assume le colorazioni più varie.
Non passano nemmeno dieci minuti, che la mia vasca nera è trapunta da tanti puntini luminosi, riuniti in un centinaio di gruppetti dalle forme circolari.
Sulle istruzioni è specificato in chiare lettere che non su tutti gli astri ci sarà vita, e che anzi solo un centinaio tra i miliardi e miliardi di corpicini microscopici potrà ospitare degli esseri pensanti.
Dopo essere stato qualche minuto in contemplazione dello spettacolo che sono riuscito a creare con un po' di bioliquido, prendo il microscopio elettronico e inizio la fase più noiosa del mio lavoro. Cerco e catalogo tutti i pianeti che, per qualche condizione particolare, sono diventati adatti alla vita.
Non devo scordarmi di rallentare il tempo di quest'universo, per evitare che nel corso dell'operazione di catalogazione qualche pianeta collassi prima del tempo. Abbasso la quantità di elettricità del morsetto, e inizio a esaminare quello che ho ottenuto.

Dopo quaranta minuti, finalmente ho finito. Non è stato un tentativo molto fertile, a dispetto delle aspettative.
Sono solo 96 i pianeti che hanno sviluppato una forma vera e propria di vita intelligente.
Tra questi, però, uno mi ha stupito particolarmente. Si trova in una galassia periferica, illuminato e riscaldato da una stella di medie dimensioni insieme ad un'altra decina di corpi. Si è sviluppato abbastanza in fretta, mostrando fin dall'inizio il suo carattere particolare. Gli esseri che mi sembravano dominanti, animali di vario tipo, predatori sulla terra e nell'aria, si sono estinti a causa della collisione del pianeta con un altro piccolo corpo che passava di lì.
La sfera, dal colore blu intenso, molto bella a vedersi, è rimasta in mano  degli esserini insulsi, bipedi, che sembrano essere l'evoluzione di una specie precedente e altrattanto buffa.
Ho deciso di rallentare ulteriormente il tempo, per osservare bene questa specie e farmi due risate.

In cinque minuti hanno creato le prime forme di vita associata. Si dedicano alla caccia e all'agricoltura, e si stabiliscono di preferenza vicino alle sezioni del pianeta più ricche del misterioso liquido blu. Credo che da quel liquido essi traggano l'energia per vivere e per portare avanti le loro interazioni ostili. Non ho mai visto, infatti, una specie più egoista.
Mentre i popoli degli altri pianeti collaborano per raggiungere i gradi più alti dello sviluppo collettivo, questi si scontrano ad ogni occasione, rallentando di fatto lo sviluppo della loro civiltà.

Dopo altri due minuti, hanno costruito le prime città e formato un linguaggio compiuto. Ad attrarmi in particolare sono le comunità dell'emisfero nord, in cui lo spirito di competizione sembra svilupparsi più forte che mai. Da queste caratteristiche si è originata una morale tutta particolare, profondamente individualista e xenofoba. Essi chiamano il mondo "Kosmos" e se stessi "Andros". Io sono il loro Creatore, eppure mi identificano con una moltitudine di nomi, legati per lo più ai fenomeni del loro mondo che non sanno spiegarsi.

Ma ecco che già nasce una nuova civiltà, in una penisola poco più a ovest. Essa prende rapidamente il controllo di un'ampia zona, conquistando anche la civiltà degli Andros. Essi sono gli "Homini". Sono i primi a riconoscere
un unico Creatore, e mi chiamano "Javhè", poi "Deus". La nuova religione sopravvive anche alla caduta di questa civiltà, anzi diventa la scusa attraverso la quale il gruppo dominante sfrutta gli altri Homini come schiavi.
Creano una assurda montatura per soggiogare le loro menti. Forse l'intelligenza di questa specie è tutta qui, nella capacità di trovare il modo di dominare sul prossimo, senza alcuno spirito di collettività. Prendo appunti.

Il potere su questo pianeta è nelle mani di pochi, che agiscono nell'ombra. Dopo la loro "Ecclesia" è subentrato il "Rex", individuo a cui tutti gli altri, senza alcun motivo apparente, si sottomettono, rischiando le loro vite e battagliando tra di loro. Le comunità ora sono tutte collegate, eppure le incomprensioni sono più forti che mai.
Vedo intere schiere di "Uomini" (anche il loro linguaggio si è evoluto) morire, battendosi gli uni contro gli altri o, ancora peggio, in mattatoi che sembrano essere stati istituiti da un Uomo e dalla sua gente solo e soltanto per questo scopo.
Nonostante vivano nel caos e nell'incertezza, questi esserini procedono ogni giorno verso la morte propria e altrui con una sistematicità e un ordine strabilianti.

Ora il mondo è in una pace apparente. Ma io, il loro Dio, vedo come stanno andando veramente le cose. Impotente, assisto alle loro battaglie silenziose, al loro accanirsi contro il pianeta, alla manipolazione di massa da parte di pochi individui dominanti.
Mi sento molto triste.

La voce di mia madre che mi chiama dall'altra stanza mi risveglia dalle mie riflessioni.
Oggi ho preso parecchi appunti, ed è già ora di cena.
Con un po' di amarezza, tolgo il morsetto dalla vasca e spengo quest'universo un po' fallimentare. 
Domani chiederò al negoziante del bioliquido di qualità migliore.


Galleria


Erano venti minuti che la guardava, per poi nascondersi dietro il suo libro dalla copertina scura.
L’atmosfera malsana del vagone contribuiva a rendere la scena inquietante.  Nella folla, nel buio inframezzato dalla cattiva illuminazione della galleria, con il sordo rimbombo delle rotaie, le sembrava di vedere la scena come in un sogno.
I passeggeri di uno stesso vagone condividono un destino comune, lanciati in velocità eppure immobili nell’ignoto, tra una fermata e l’altra. Quella volta, però, tutti gli altri presenti si ridussero a ombre scure: mendicanti, uomini in cravatta con valigetta al seguito, giovani dall’aria trasandata divennero contorni di quel gioco di sguardi, ornamenti sul palcoscenico dove stava avendo luogo quel dramma.
Aveva  imparato a memoria tutti i dettagli del suo abito elegante.
Aveva preso a contare, in un assurdo gioco, i secondi che passavano tra un tic e l’altro. Una volta si aggiustava gli occhiali, un’altra si passava una mano nei capelli, con un intervallo costante di venti secondi tra un gesto e l’altro.
Doveva essere piuttosto giovane, forse sulla trentina: il viso scarno non presentava rughe, e la folta barba nera sembrava accordarsi perfettamente a quegli occhi assorti.
Erano quegli occhi che l’avevano stordita. Quegli occhi che la fissavano furtivi, che saggiavano la sua modesta figura avvenente e melanconica di donna stanca, che doveva essere stata bellissima. Senza dubbio, lei in quegli occhi non vedeva alcuna virtù: l’uomo forse non era bello, e non lasciava trasparire alcuna qualità particolare. Anzi, sembrava mimetizzarsi perfettamente con l’atmosfera di decadenza che regnava in quel vagone. Tuttavia, quello sguardo l’aveva turbata profondamente. Lo sentiva su di sé, come una carezza inquietante, un rivolo di acqua fredda sulla schiena.
Rabbrividendo, si voltava continuamente verso di lui, giusto in tempo per vederlo chinare la testa di scatto, imbarazzato. Ogni volta che ciò accadeva, dentro di lei cresceva inspiegabilmente un piacere feroce, di rivalsa. Sapeva che anche in lui stava crescendo quello strano misto di paura e desiderio, un’inquietudine che dettava il ritmo di quella strana danza dei volti.
Si stava chiedendo se il senso di sporcizia che la pervadeva stesse montando anche in lui: ad ogni carezza di quello sguardo lei cercava di ritrarsi, come una bambina lorda di fango, come se lasciarsi esaminare da quegli occhi costituisse la più terribile delle lussurie.
Un tradimento, ecco cos'era. Un colpo secco.
Una cannonata che avrebbe frantumato tutto ciò che aveva costruito in quegli anni, al prezzo di enormi sofferenze.
Una passata di spugna, che avrebbe purificato il suo animo dal peso dell'impotenza, dalla ruggine che l'aveva resa indifferente alla vita.
L'uomo che l'aspettava a casa non sarebbe stato contento di questo. Come tutti i giorni, l'avrebbe insultata, forse picchiata. Sicuramente si sarebbe sfogato poi sulla bambina, decisamente meno inerte e più sensibile al dolore delle percosse. 
Suo marito amava vederle soffrire. Il dolore nei loro occhi era una medicina per il suo spirito di uomo frustrato.
Più che mai, però, amava rigirare nel suo cervello la consapevolezza della loro impotenza: non sarebbero mai potute fuggire, nessuna delle due. L'una, non ne aveva il coraggio. L'altra, non ne aveva i mezzi, almeno per il momento.
Ma anche nell'istante in cui sarebbe diventata adulta, la sua bambina avrebbe portato per sempre nella sua psiche il marchio dell'amore paterno.

Il treno era entrato in galleria.
Il buio aveva inghiottito il paesaggio esterno.
Il movimento non era più: il tempo e lo spazio erano scomparsi.
Lui finalmente la stava guardando in volto, quasi sfrontatamente. La studiava attento, quasi fosse stata una candida scultura di marmo, la rappresentazione di una sofferenza che va oltre l'esprimibile. 
Il dolore delle vita perduta in un passato lontano, l'orribile catena di eventi che l'aveva sepolta viva, prematuramente e definitivamente. Tutto questo era nel suo sguardo e la rendeva infinitamente bella.
Ma una mano tremante uscì dalla tomba. Un'idea antica riemerse dal gorgo nero della coscienza, e la bellissima statua divenne viva, di nuovo.

Il treno uscì dalla galleria e fu inondato dalla luce di quella mattina soleggiata. Il mondo esisteva di nuovo.
Lei sorrise all'uomo barbuto, e scese con tranquillità alla sua fermata. 
Lungo la via di casa, si fermò per comprare un coltello. Lama ampia, lucente e affilata.
Quella notte, sarebbe tornata a vivere. Sarebbe stata più viva che mai.

Una vita



Chiuso nel suo bozzolo, confortato dal dolce riparo che quella corazza gli offriva, e forse anche spinto dalla noia, meditava sul senso della vita, sul suo carattere inesorabilmente effimero.
Ne aveva passate tante per arrivare dov’era. 
Dopo aver preso coscienza di sé, una forza irresistibile lo aveva spinto a nutrirsi con avidità di tutto quello che c’era attorno. Seta, seta. Doveva produrre seta. 
La vita era semplice allora: il pasto successivo era la più concreta e semplice ragion d’essere che si potesse immaginare. Lì era tutta la sua vita, senza pericoli né dubbi particolari.
Un giorno sereno, con la luce del sole a picco sull’albero, aveva smesso di essere affamato. 
Il mondo era sospeso, mentre nel suo cervello di bruco crollavano le fondamenta della sua identità. 
Era stordito, nauseato. Vomitò. 
Un lungo filo di seta dura, pallida, uscì in un fiotto dalla sua bocca. 
Si sentiva già meglio, a parte per una certa stanchezza. Esausto per la frenetica ricerca di cibo, desiderò per la prima volta avere un riparo per riposare.
Iniziò a manipolare con maestria il flusso della seta. Il filo, duro ma ancora malleabile e aderente, ben presto lo aveva completamente imprigionato in una morbida corazza.
Si era addormentato, e al risveglio si era trovato diverso.
Pur non potendo muovere la testa per guardarsi, percepiva le sue nuove forme distintamente.
Non provava un’emozione definita: gli sembrava di aver corso a lungo per arrivare a questo traguardo, per poi esserne infine deluso. 
Era in perfetta salute, certo, ma una strana malinconia gli riempiva il cuore. Anche adesso, come quando aveva vomitato la seta, non sapeva cosa fare, e la sua testa era capace di produrre solo un sordo ronzio. 
All’improvviso, gli fu chiara una cosa: presto il bozzolo si sarebbe rotto, e lui sarebbe stato libero.
Come fosse stata una conseguenza logica di questo concetto, capì che una volta libero gli sarebbe rimasto solo un giorno di vita.
Sapeva che le sue erano belle forme, contornate dai colori più belli della natura. Sapeva però che nel giro di poche ore questa bellezza sarebbe svanita, e con essa la sua coscienza.
Egli esisteva solo finchè esisteva quella bellezza. Forse, egli esisteva solo perché esistesse quella bellezza, perché il mondo fosse rallegrato dai suoi colori. Ma era poi il colore la vera fonte della sua bellezza? La natura era piena di colori, e lui non poteva essere solo una mera aggiunta al quadro del creato, un puro elemento estetico fra altri elementi estetici.
Egli doveva essere unico, perché sentiva di essere un individuo. E cos’è  che rende unica una farfalla?
La sua vita estremamente breve. Lì era la poesia, lì era la bellezza: nel passare una vita a lavorare faticosamente per donare dei colori al mondo, anche se per un giorno solo. 
I fiori, i pavoni e gli arcobaleni vivono a lungo, hanno tutto il tempo di dare un senso al loro stare al mondo. Lui no. Sarebbe morto al tramonto.
Era sempre stato un tipo particolare, un bruco melanconico. 
Si sentiva egoista, non aveva mai voluto lavorare per il mondo, per un qualche fine estetico. E a che serviva, infine, rompere quel bozzolo? Meglio perdere coscienza adesso, addormentarsi nel tepore della sua corazza.
Mentre meditava su queste cose, il bozzolo si incrinò, e un raggio di luce lo penetrò a fondo.
Fu per la farfalla come l’acqua per un moribondo nel deserto. Non aveva mai saputo di averne bisogno, prima la dava per scontata. Ma ora la luce lo chiamava fuori, irresistibilmente.
Si accorse di poter muovere le ali. Lo fece, e il bozzolo si frantumò in mille pezzi.
Desiderò vivere. Volò nel vento e nel sole, pieno di gioia ed energia. Vide una possibile compagna, danzò per lei, ma ella lo respinse. Fu molto triste. Ne vide poi un’altra, forse non così bella ma decisamente più dolce. La sedusse e si amarono. Bevve nettare, pensò che non avrebbe mai visto i suoi figli. Sfuggì per un pelo ad un uccello minaccioso, e provò la paura.
Infine, la sensazione familiare di stanchezza: l’energia che in mattinata aveva in abbondanza ora gli mancava. 
La luce del sole, ormai rossastra, diventava sempre più tenue. 
Il tramonto era la cosa più bella che avesse mai visto.
Iniziò a precipitare nel buio. 
In fondo aveva avuto una bella vita, pensò addormentandosi.